Questo pezzo è uscito su Europa.
Venerdì mattina sono entrato per la prima volta in un Cie, un centro di identificazione e di espulsione. Ero al seguito del senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, che portava ai detenuti del centro di Ponte Galeria una lettera che il presidente Napolitano aveva scritto in risposta a quella che gli era arrivata da una serie di detenuti che avevano protestato nelle settimane passate arrivando a cucirsi la bocca.
Era la prima volta che entravo in un Cie, e mi è dispiaciuto che non l’avessi fatto prima. Avrei capito con una chiarezza cristallina alcune cose della politica italiana e europea degli ultimi dieci anni.
Il Cie di Ponte Galeria è il più grande di Europa. Visto da fuori è una specie di caserma gigante. Si trova accanto alla Fiera di Roma. Anzi, a dire il vero, si trova attaccato al parcheggio dell’entrata Nord della Fiera di Roma. Non c’è nessuna indicazione che porti al Cie, sembra veramente un non-luogo nella landa della non-luoghità. Lasci la macchina in questo enorme parcheggio vuoto, la desolata stazione della ferrovia per Fiumicino da una parte, e scale mobili che non trasportano nessuno per ore dall’altra: Paolo Virzì l’aveva giustamente scelta come location di Tutta la vita davanti.
Questa caserma invisibile e imponente è – l’ha scritto più volte Manconi – pensata come una sorta di gabbia di gabbie. C’è una struttura esterna con altissime sbarre, e poi come a matrioska gabbie più piccole e poi più piccole. All’interno di queste gabbie ci sono delle stanze dove venerdì c’erano all’incirca 70 persone. Una struttura che sarà grande quasi un chilometro quadrato per 70 persone. Queste 70 persone vivono in delle stanze in otto, con letti attaccati a non più di quindici cm l’uno dall’altro.
Probabilmente queste cose che scrivo molti di voi le sapranno già, io stesso ho letto vari articoli sui Cie, e capita che le immagini dei centri arrivino sui giornali, almeno ogni volta che c’è una protesta clamorosa, materassi incendiati e bocche cucite. Ma quello su cui vorrei attrarre l’attenzione invece non è sull’emergenza, ma sulla vita in un Cie in un giorno di febbraio qualunque. Una mattinata tarda, all’ora di pranzo. Questo perché molti di noi, per fortuna, saranno assolutamente convinti che i Cie sono dei posti orrendi, atroci, terribili… E questo è in parte vero: all’interno, per certi versi, sembrano delle baracche di stato. Ma la cosa più agghiacciante che non avevo realizzato prima di entrarci non è la loro violenta bruttezza, ma il loro non-senso.
I Cie sono la versione aggiornata dei Centri di permanenza temporanea, i Cpt, creati dalla legge Turco-Napolitano, nel 1998 (sarebbe bello che domani il presidente della Repubblica prendesse le distanze e si scusasse pubblicamente per una legge e una visione giuridica sugli stranieri che porta il suo nome), i cie sono “strutture istituite per trattenere gli stranieri sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera”. Per manifestare la propria indignazione, molto spesso si dice: “Sono prigioni!”, oppure “Sono lager!”.
In realtà i Cie non sono né l’uno né l’altro. Non sono prigioni, perché non hanno nessuno scopo di riabilitazione o di punizione. Non sono lager perché non sono dei campi di lavoro. Sono dei luoghi limbici in cui non accade nulla, non si sa perché ci si è finiti, non si sa quando se ne uscirà, non si sa come se ne uscirà. Il 40 per cento è espulso, il 60 si disperde. Nel frattempo – un frattempo che può durare fino 18 mesi ma che per molti è un frattempo ciclico (la maggior parte delle persone con cui ho parlato, erano in un Cie per la seconda, terza, anche decima volta) – la vita è ridotta alla nuda vita, per dirla con gli agambeniani: mangiare, bere, dormire, pisciare, cacare. La mensa, i letti, i bagni.
I detenuti del Cie di Ponte Galeria sono sostanzialmente delle persone a cui è andata male, con storie pesanti alle spalle. La maggior parte delle storie che ho sentito venerdì erano quelle di ex-ragazzini o ex-ragazzine che sono andati via dal Marocco o dalla Nigeria che avevano tredici anni, sono arrivati in Italia nemmeno maggiorenni, e da allora vivono e lavorano in nero. Ogni tanto li beccano, li buttano qui. Poi escono. Poi tornano al paese d’origine. Poi tornano in Italia. Poi si rifanno un Cie. Etc… Molti sono in Italia da vent’anni, molti hanno qualche precedente penale: piccoli furti, risse, spaccio. Molti del resto arrivano al Cie dal carcere. All’insensatezza di portare in un centro d’identificazione uno che è stato in galera si aggiunge l’insensatezza per cui anche se si è espiata la pena, la Bossi-Fini prevede comunque l’automatica espulsione.
Insensatezza per insensatezza, sono dieci anni che in Italia esiste il reato di clandestinità. I circa 700.000 stranieri che non hanno il permesso di soggiorno in Italia sono criminali; metteteci dentro anche i ragazzi stranieri che hanno appena compiuto diciott’anni.
I detenuti del Cie sono sostanzialmente degli sfigati, ma – dopo averci chiacchierato cinque minuti – si rivelano sostanzialmente delle persone da ammirare. La storia più comune è quella di uno che a tredici, quattordici anni, riesce a nascondersi sotto il motore di un pullman o sotto il telaio di un camion e attraversare varie frontiere, con il rischio di morire. Per me ogni volta che sento raccontare una storia del genere penso ai romanzi di formazione che leggevo a tredici anni, Huckleberry Finn o Zanna bianca. Che differenza c’è?
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